Quando morì Gaetano Scirea avevo quasi quindici anni, la mia passione per la Juve era già sbocciata da un po’, proprio negli anni in cui “Gay” aveva cominciato a giocare con la maglia bianconera. Ricordo come fosse ieri la puntata de “La domenica sportiva” in cui fu annunciato il tragico incidente: ero lì, davanti alla tv, insieme ai miei fratelli, a vedere, come sempre, il riassunto della domenica calcistica, a seguire i dibattiti tra giornalisti, quando Sandro Ciotti annunciò la terribile notizia. Il primo pensiero che attraversò la mia mente fu “non è giusto, perché proprio lui?”, un uomo che aveva sempre vissuto il calcio nella maniera migliore e che da pochissimo tempo aveva intrapreso un’altra strada, sempre per amore della Juve. Ahimè, la vita mi avrebbe “insegnato” che vedere persone come Gaetano Scirea andarsene via troppo presto, non è affatto raro, anzi. Come si dice: la giustizia non è di questo mondo.
Non avendo avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, conservo in me il ricordo di Scirea calciatore, della sua eleganza in campo, di quei movimenti armonici che facevano di lui un perfetto direttore d’orchestra. Ma anche le galoppate che spesso lo portavano in area di rigore (24 gol in quattordici anni di militanza juventina), e soprattutto quel “Giochiamo per voi” pronunciato nella maledetta notte dell’Heysel da un uomo afflitto ma pronto a scendere in campo per dare, come sempre, il massimo.
Non fu mai espulso e a pensarlo oggi, per un difensore, è difficile da credere, ma lui riusciva sempre a recuperare il tempo giusto, a prevedere la giocata dell’avversario, a trovare l'equilibro anche quando il momento esigeva durezza e decisione. Ciò perché Scirea era uno degli ultimi calciatori “in punta di piedi”, uno di quelli sempre pronti a dare la mano all'avversario, a sorridere e a mettere pace tra i contendenti. Ha vissuto sempre lontano dai riflettori, così come la sua vita da “uomo semplice” lo spingeva a fare, mai una parola di troppo, mai un comportamento al di sopra delle righe.
E poi il suo amore per la Juventus: arrivò a Torino a diciannove anni, lasciò il calcio a trentatré, dopo aver vinto praticamente tutto ed essere diventato anche campione del mondo. Un esempio di amore e affetto che lo ha fatto diventare il simbolo della juventinità, quella vera, non quella dei tifosi occasionali o peggio dei tifosi violenti. Scirea è lo stile Juve, quello che in tanti, troppi, negli ultimi anni hanno dimenticato. La sua memoria dovrà rimanere sempre viva, soprattutto in tutti quei giovani che si avvicinano al calcio e sognano di giocare nella Juventus.
Il calcio di Scirea non esiste più, calciatori come Scirea non ne esistono più, ma lui è sempre con noi, nel cuore di tutti gli juventini d’Italia.
Ciao Gay.
(Marcello Gagliani Caputo)
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